Quando parliamo di amore, parliamo di lui.
Parliamo del gemello, del nostro primo amore che, come dice il proverbio, non si scorda mai. È quell’enfasi magnifica che esulta in noi e ci strazia di ardore quando nasce, e di dolore se muore. Chi almeno una volta nella vita non l’ha incontrata? A un certo punto cammini e ci inciampi dentro, le cadi addosso, la travolgi, o lei travolge te. Immediatamente nulla è come prima. Si accende una miccia, e parte un movimento interiore che è impossibile fermare.
Ma amiamo sempre e solo lo stesso amore per tutta la vita e inseguiamo solo lui. Lo inseguiamo attraverso il tempo, gli anni, lo cerchiamo disperatamente fra i volti delle persone che incontriamo. Disperatamente cerchiamo un gesto, un particolare che ci permetta di riconoscerlo, un suono, un odore, una forma. Spesso la nostra ricerca annaspa sull’onda di raffazzonate similitudini, che forzatamente cerchiamo di ostinarci a digerire ma che poco o nulla hanno a che fare con il vero oggetto della nostra caccia al tesoro. Talvolta approdiamo ad innamoramenti di scarso valore, ai quali ci aggrappiamo temporaneamente solo per la paura di restare poveri o soli, ma dentro al cuore sappiamo che la ricerca della nostra parte mancante è appena iniziata.
Trovare il gemello ci riporta a casa. Viaggiare per poterlo trovare ci permette di vivere. Nulla può fermarci durante il percorso, Itaca ci reclama prepotentemente, e sappiamo che solo tornando in patria saremo veramente completi, integri, centrati. L’odore della verità guida il nostro fiuto come una bussola, e nessuna sirena o prigione può interrompere il nostro viaggio, la nostra ricerca.
È un tira e molla; siamo sempre più convinte che nelle relazioni amorose in cui entrambi i partner sono attivamente in sindrome, ci si trova incastrati in un meccanismo curioso e diabolico. Un dedalo d’amore. Tanto ci si morderebbe dalla voglia di sciogliersi nell’altro.
È un morboso desiderio di stare appiccicati, fusi totalmente nello spazio l’uno dell’altro, in un nuovo unico spazio, generato come un paradiso, ma vissuto con la paura che possa di colpo aprirsi una botola sul pavimento che ci risucchia verso la dannazione dell’inferno.
C’è un desiderio viscerale di toccarsi, di guardarsi, e la paura, il panico, di perdersi. Ogni attimo vissuto insieme ha l’intensità del primo respiro di vita e la solennità dell’ultimo. È un mantice di passione, desiderio e dolore, dove ogni emozione si esaspera e insegue quella dopo, come una cane che cerca di mordersi la coda e inizia la sua trottola perpetua.
Scattano moti di gelosia, di bramosia, ogni carezza è desiderata e pretesa. Smania e gemito, anelito e attesa. L’altro non soddisfa mai fino in fondo la propria voglia di amore, che è in realtà insaziabile. E ci si spende a dare e a chiederne sempre di più, in un costosissimo gioco al rilancio. C’è un continuo bisogno di percepirsi, di misurarsi, di unirsi. Fisicamente e intellettualmente. È la ricerca continua di un significato che non si riesce a trovare, che ci lascia l’amarezza, la delusione, e la sensazione di restare a mani vuote.
Nelle coppie in “Sindrome del Gemello che Resta” sono presenti numerosi intrecci comportamentali, uno fra i tanti è che il rapporto si muove su quattro persone, meglio intese come entità percepite.
Fra loro si innescano questi meccanismi:
- l’impatto attrattivo fra i due partner;
- il rapporto di integrazione o scissione che ogni partner ha con il proprio gemello non nato;
- la manifestazione della parte emotiva ereditata dei rispettivi gemelli non nati, che entra in scena proprio durante il consolidamento della coppia;
- La proiezione della propria dinamica emotiva gemellare sul partner, che diviene il bersaglio della reciproca compensazione.
Nella coppia portiamo noi stessi, interamente, con tutte le parti che ci compongono (questo vale anche nei rapporti di amicizia viscerale che vediamo gestire dai nostri figli quando interagiscono in simbiosi con il loro amico del cuore, che diventa a tutti gli effetti una figura molto più importante di un semplice fratello).
Quando oltre alla conoscenza della sindrome c’è presa di coscienza, e se c’è accordo in tutto questo movimento, allora la coppia funziona, altrimenti è il caos. Se le parti sono integrate c’è pace, se le parti in scena sono dis-integrate c’è confusione, agonismo, lotta, sofferenza. Con una mano tiro l’altro verso di me, con l’altra lo spingo via da me. Con il corpo desidero l’altro, con la mente lo nego, oppure con la mente lo cerco ma il corpo non risponde. Quando all’interno dell’utero si è registrata questa esperienza in maniera mite, accogliendola nel suo esistere, allora le relazioni della vita, in seguito, verranno vissute con normalità, con fluidità. Quando all’interno dell’utero materno si è registrato un movimento di rifiuto, rabbia e paura verso il gemello morente si tenderà a ripetere questo movimento verso il partner.
Molti si riconosceranno in questo identikit. Molti bambini si esprimono così già dalle loro prime amicizie di infanzia. Sono gli amori tormentati, quelli in cui “non posso stare con te” e “non riesco a stare senza di te”.
La gelosia e la possessività diventano la tempesta in cui la nostra barca sta avanzando; il timone, senza l’accordo della bussola, non può più garantire la rotta del nostro viaggio, e il rischio di naufragare o colare a picco cresce a ogni istante. Si compiono continui errori, passi falsi, follie. Si diventa diffidenti, aggressivi, rancorosi, sospettosi, insicuri, ci si vomita addosso accuse senza ragione e nel tentativo di scusarsi ci sia abbassa a vergognose manovre di recupero, che falliscono ancor prima del decollo. In questa fase aberrante si autoalimentano continuamente litigi esponenziali, che scoppiano con minimi pretesti, e se fossimo invitati a descrivere il perché del nostro agire scellerato pronunceremmo le fatidiche parole: “perché lo/la amo”. In uno scenario simile la ragione è priva di ruolo. Tutto è mosso dall’istinto. Tutto è esasperato. Sembra che nulla possa estinguere l’incendio di certi scatti di ira, e niente possa lenire il dolore crescente della solitudine in cui inesorabilmente veniamo a trovarci.
Scoprire che il nostro agire sia dettato dalla componente emotiva del nostro gemello non nato apre una via di fuga, offre una boccata di ossigeno. Se a parlare, ad agire, fosse l’emotività repressa del suo dolore, che esce allo scoperto usando la nostra voce e il nostro atteggiamento, potremmo, attraverso un atto di riconoscimento e recupero, gestire e contenere queste manifestazioni. Drenare all’esterno di noi questo dolore equivale a purificare la nostra sofferenza. Questo discorso mette in luce il problema della rabbia lesiva e non giustifica né attenua la colpevolezza di chi esprime violenza a danno di altri, ma permette a chi è incapace di contenersi di poter ricevere ascolto, di poter trovare aiuto. Il ruolo del terapeuta (gran parte di questo libro è rivolto ai terapeuti) sarà riconoscere la modalità reattiva del paziente e la presenza della “Sindrome del Gemello che Resta” per trattarla adeguatamente. Riconoscerne l’esistenza sarà il primo vero passo di guarigione.
Crediamo profondamente nel potere terapeutico della parola, scritta, recitata, cantata e nel valore della meditazione e del rito, per affrontare quel doloroso soffrire, che spesso si vive all’interno della coppia in difficoltà; per offrire un esempio immediato prendiamo spunto dalle parole recitate da Mosè (interpretato dall’attore Christian Bale) nel film di Ridley Scott Exodus – Dèi e Re. Le sue parole riassumono il senso di integrazione nella coppia e diventano immediatamente rito o atto terapeutico.
Mosè recita questo duetto con la moglie Séfora, la prima notte di nozze, prima di unirsi carnalmente, prima di fondere il movimento del proprio corpo con quello di lei:
Mosè: “Chi è che ti rende felice?”
Séfora: “Sei tu”
Mosè: “Qual è la cosa più importante della tua vita?”
Séfora: “Sei tu”
Mosè: “Quando ti lascerò?”
Séfora: “Mai”
Mosè: “Ora posso?”
Séfora: “Ora puoi”.